Capoverde, a due metri dal sogno
Partiti! Finalmente siamo sull’aereo che da Malpensa ci porterà a Capo Verde, Africa, in Oceano Atlantico a 70 chilometri circa a ovest del Senegal. Io (Dario), Maurizio, Massimo, Tiziano, Andrea, Roberto e Michele, atterriamo dopo sei ore nell’isola di Boavista. Senza scendere dall’aereo, dopo una sosta di pochi minuti, decolliamo nuovamente. Atterraggio a Sal, isola principale dell’arcipelago.
Velocemente in albergo a Santa Maria per lasciare i bagagli, in tempo per il pranzo in un ristorante affacciato direttamente sul mare. Qui incontriamo il “primo pesce” di Capo Verde: un fantastico carpaccio di tonno! Non esiste la coincidenza per l’isola di Sao Nicolau, nostra destinazione finale, che raggiungeremo con un altro volo aereo il giorno successivo.
A Sao Nicolau, l’aereoporto è situato al centro dell’isola, in una vasta pianura in quota, circondato da montagne. Bruno (caro amico, italiano, padre di Massimo e Tiziano, vive da dieci anni a Capo Verde ed è appassionato di pesca) è venuto a prenderci in aeroporto organizzando il viaggio sino a Tarrafal, il centro abitato più importante dell’isola. Siamo tutti suoi ospiti. E’ Bruno che ci noleggia la barca (la più grande disponibile a Tarrafal) per la pesca turistica quando attraversiamo il mare verso altre isole, è sempre Lui che ci mette a disposizione la sua barca personale quando invece trainiamo nella zona più protetta dalla costa. E’ sempre Bruno che la sera ci porta nei ristoranti dell’isola.
La strada dall’aeroporto a Tarrafal è “tortuosa”, a causa delle recenti piogge torrenziali che hanno eroso le strade e provocato decine di frane. La parte alta dell’isola è ricoperta da una discreta vegetazione. Quando invece arriviamo in prossimità della costa ovest, la vegetazione pian piano si dirada sino a scomparire, mettendo in risalto l’origine vulcanica dell’isola. Una roccia marrone scuro, quasi nera, come generalmente nere sono le poche spiaggie bagnate da un mare altrettanto scuro. Pulito, bello ma scuro.
Necessita una doverosa premessa: Capo Verde è famoso non solo per la pesca, è anche il paradiso dei surf. In particolare del Kay surf. Reso possibile dal forte vento che “spazza” quasi costantemente il mare, con le onde che si alzano di conseguenza. Tutti sono avvisati. Chi soffre il mare, resti a casa ! Chi ha paura delle onde alte e del mare mosso, cambi meta! Chi esige sicurezza al cento per cento, non venga a Capo Verde! Chiariamo, qualsiasi uscita in barca anche nel più calmo dei mari italiani nasconde delle insidie; ma qui i rischi aumentano radicalmente. In caso di problemi alla barca (avaria, affondamento, incendio a bordo), i soccorsi (le barche degli altri pescatori) arriverebbero con ritardi tali da rendere inutile ogni intervento. Il mare è mosso anche in Italia; qui è sempre mosso, molto mosso (siamo nell’atlantico).
Lo scorso anno, un turista inglese, a pochi metri dall’isola disabitata di Razo, si è tuffato in acqua dalla barca a vela per raggiungere la riva. Uno squalo bianco gli ha tranciato la gamba; è stato soccorso dal Suo equipaggio ma è morto dissanguato nel trasporto verso Tarrafal (distante solo 13 miglia), verso un improbabile posto di Pronto Soccorso.
A Capo Verde, tutte le dimensioni sono diverse: i pesci come le emozioni, la forza del mare come quella degli abitanti. Oggi primo giorno di pesca, il mare è apparentemente calmo; il vento tira da terra e andiamo a trainare all’isola di Razo. Aspetto di vedere lo stato del mare quando usciremo dalla protezione dell’isola. Infatti troviamo al traverso da poppa, onde mediamente con cavo di un metro e settanta. Al timone della “barca” Ciprian, a poppa i nostri “marinai” Herilinho e Hestella, pronti alle canne il sottoscritto con Maurizio e Michele.
Trainiamo lasciando a poppa le lenze di tre canne, con rapalà come esca. Arrivati a circa due terzi dell’attraversata, Ciprian scorge un relitto galleggiante (la dimensione di un letto con legata una grossa cima) e vira con decisione verso lo stesso. Ricordo, alle isole Eolie la stessa strategia quando si scorgeva anche una semplice cassetta di legno che galleggiava; frequentemente sotto il relitto, “all’ombra ed in agguato”, più di un predatore. Ciprian vira con ancor più decisione facendo filare le lenze vicinissime al relitto.
E’ un attimo, parte la prima canna. Prendo posizione in corrispondenza della poppa e comincio a recuperare. Per poco, il pesce si è già liberato. Ciprian ripete l’operazione e come una “fotocopia” riparte ancora la seconda canna. Ricomincio l’azione di recupero, il pesce combatte e prende lenza. Senza particolari problemi recupero la lenza ed il pesce si avvicina alla barca. E’ in questo momento che capisco la differenza tra “divertirsi” (noi peschiamo per divertimento, quasi è un gioco col pesce) e pescare veramente (chi pesca per vivere, il pesce lo pesca per rivenderlo, senza “inutili” fronzoli).
Herilinho e Hestella gettano a poppa degli sgombri interi, mediamente da trenta centimetri. Le lampughe (chiamate Dorado), seguono il pesce agganciato alla lenza della mia canna sino sotto la barca e iniziano freneticamente a mangiare gli sgombri gettati in mare.
Con la stessa velocità, i nostri marinai estraggono da un pozzetto due lenze a mano (corda robusta con amo grande quanto quelli che usano i macellai), innescano mezzo sgombro ed iniziano a pescare “a vista”. Pochi secondi ed il sottoscritto, a poppa ancora con il pesce allamato ed in azione di recupero, si trova esattamente al centro di una guerra. Con le stesse movenze di Bush, quando spostando il capo ha evitato di essere colpito da una scarpa, parimenti ho evitato, a destra come a sinistra, lampughe di 10-20 chili che dal mare “volavano” direttamente sulla barca, passando a pochi centimetri dal mio viso.
Recuperata la seconda Lampuga mi preparo a rimettere in acqua la lenza quando “peso” in diretta un’altra lampuga che mi plana direttamente sulla spalla destra; abbandono la postazione ascoltando le urla di Maurizio e Michele. Il tutto in un mare non impossibile, con la barca però che ondeggiava fortemente quando nelle manovre si viene a trovare di traverso alle onde.
Una lampuga enorme, ancor più “cattiva” nell’aspetto, viene issata a fatica in barca da entrambi i marinai. Intanto parecchie lampughe saltano impazzite nel pozzetto per superare le sponde della barca e recuperare la libertà. Evito di specificare il metodo cruento utilizzato dal sottoscritto per “tranquillizzare” le lampughe.
Intanto, Maurizio e Michele faticano a convincere i marinai a sospendere la “mattanza”, per riprendere la rotta verso l’isola di Razo. Herilinho e Hestella ci dicono poi, che in nostra assenza, si sarebbero fermati solo quando l’ultima lampuga fosse stata sulla barca; ovviamente per loro, come per Ciprian il “pescato” corrisponde ad un guadagno. Infatti i pesci vengono poi venduti al ritorno in porto.
Raggiungiamo l’isola, trainiamo lungo la costa riparata dal vento (quindi con mare calmo), assistiamo a diverse mangianze con pesci che si “sparano” fuori dall’acqua inseguiti dai predatori , maestosi tonni e terrificanti scie lasciate dai wahoo in caccia , senza però la fortuna di assistere ad altre “abboccate”. Proviamo senza successo la traina verticale e con scarso riscontro il bolentino. E’ ormai ora di tornare, il vento si è rinforzato e si sente chiaramente anche se siamo al riparo dell’isola. Quando usciamo dalla protezione dell’isola, ci appare subito chiaro che la traversata “non sarà tranquilla”. Vento teso e onde oltre tre metri mettono a dura prova la nostra imbarcazione. Mare non “esagerato” ma affrontato con la nostra pilotina in legno di otto metri (la più grande di Tarrafal, ben motorizzata ma con una chiglia “poco marina”).
Premetto: prima ancora di iniziare a pescare, andavo per mare; ho affrontato condizioni di mare decisamente peggiori. Assicuro, senza esagerare, che quel giorno non esisteva l’assoluta garanzia del ritorno in porto. Con un segno della croce, la perizia di Ciprian e dopo migliaia di ondate prese in faccia, arriviamo in un paio d’ore nella zona riparata, protetta dalla costa. Dopo una ventina di minuti, scattate le foto di rito e sistemata la barca e l’attrezzatura, arriviamo in porto. Facciamo pesare il pesce: 113 kg complessivi 10 pezzi e 27 kg la lampuga più grossa, soddisfatto l’equipaggio dalla vendita del pescato ottima giornata.
Il secondo giorno, le previsioni meteo indicano che il vento stava calando. Entusiasti della grande pesca, in particolare la voglia di chi invece il giorno precedente è rimasto a terra, ci portano a decidere lo stesso itinerario anche per il secondo giorno. Con il mare solo un poco meno mosso, “attraversiamo” sperando di incontrare nuovamente le lampughe del giorno prima. Proviamo a trainare nella parte protetta di Razo ma le canne sono “silenziose”.
Gettiamo l’ancora e proviamo al bolentino: inizia il divertimento. Un pesce dietro l’altro, spesso le catture sono multiple con una preda per ogni amo (2) della montatura, pezzature non inferiore al kilo. Si impiega decisamente più tempo ad innescare le esche che il pesce ad abboccare. Una gara dove Maurizio, il più esperto in questa tecnica di pesca, fa la parte del leone. Quarantasette chilogrammi di cernie rosse, pesci balestra, tonnetti, saraghi, una ricciola ed un bellissimo “wahoo” (pesce pelagico presente in tutti gli oceani) di 19 chilogrammi, pescato durante la traversata del ritorno da Maurizio aiutato ad portarlo in barca dai due marinai per le condizioni proibitive del mare.
Oggi terzo giorno di pesca; si esce con la barca di Bruno. La barca è una bella “lancia” di circa sette metri, spinta da un fuoribordo di 40 cv maggiorato a poco oltre 60. Il vento non è forte e la direzione è da terra, il mare è calmo. L’equipaggio è composto da Dario, Maurizio, Andrea, Roberto e Herilinho, il “marinaio” di Bruno.
Usciti dal porto di Tarrafal si naviga verso l’estrema punta dell’isola, in direzione sud. “Armiamo” la lenza delle canne con un cavo di acciaio del diametro di un paio di millimetri, sul quale posizioniamo due rapalà magnum 30 nelle canne laterali (il classico “testa rossa” ed un altro con le sfumature verdi e gialle, scelta casuale e fortunata che invece si rivelerà vincente) ed un rapalà da 12 cm, direttamente sulla lenza, in quella centrale. Chi è uscito, con la stessa barca e nella stessa zona nei due giorni precedenti, non ha avuto modo di riscontrare nemmeno un “abboccata”. E’ per questa ragione che abbiamo voglia di cambiare “tattica”, dare una svolta “europea” alle montature (utilizzare il fluorcarbon) e alle esche (provare con l’esca viva).
Si decide di provare un oretta con i metodi tradizionali “Capo Verdiani”; in caso di insuccesso proveremo a cambiare. Arrivati alla punta dell’isola, viriamo verso la secca di Canalinho; non passano quindici minuti che una delle canne da 120 lb vicino al nostro tattico (Maurizio) inizia a “cantare”; una “musica” solo sognata nelle dense nebbie invernali di Milano, un canto che aspettiamo da mesi. E che canto, la lenza fila via veloce. Intanto Andrea indossa l’imbragatura di combattimento per reggere la canna; nonostante una frizione “molto dura”, la lenza esce per oltre 200 metri.
E’ zona e periodo di “wahoo”; la canna è pesantissima, sembra di aver agganciato un muro. Poi, improvvisamente, la canna è libera, non è più in trazione, si insinua la paura di aver già perso il pesce. Recuperiamo velocemente nella speranza che il pesce stia “puntando” la barca; è così. La canna è nuovamente in trazione, il nostro “muro” è ancora agganciato e combatte. E’ così grosso che in due a fatica teniamo la canna; a turni recuperiamo la lenza che ripetutamente il nostro pesce “si riprende”. La battaglia continua, con il pesce che “parte” prendendosi lenza e noi che recuperiamo dopo la sfuriata.
Dopo una ventina di minuti di combattimento, con il pesce che continua a “puntare” il fondo, si fa strada la convinzione che non è un Wahoo; è certamente un tonno, un grosso tonno! Intanto prosegue la battaglia con il pesce che regolarmente “prende” lenza (un suono stupendo quello dei mulinelli quando lavora la frizione), presto recuperata appena il pesce smette di sferrare l’attacco. La barca che cerca ora di “assecondare” il pesce, per rendere meno difficoltoso il recupero, che ora invece manovra per evitare che il pesce (quando “punta la barca”) si liberi incrociando la lenza con le eliche.
Andrea è esausto, chiede il cambio; io, che gli ero letteralmente sopra e aggrappato alla canna, indosso l’imbragatura di combattimento. Intanto che Andrea prende fiato, Maurizio mi aiuta nel tenere la canna. Continua il combattimento; la fatica si fa sentire ma l’entusiasmo è alle stelle. Sento l’avambraccio “gonfio”, il manico della canna mi schiaccia lo stomaco, tutti i muscoli sono tesi; la durezza della lotta è mitigata dalla consapevolezza che a noi, “milanesi per caso” a Capo Verde, al penultimo giorno nell’isola di Sao Nicolau, difficilmente capiteranno altre occasioni. Difficilmente “agganceremo” nel resto della nostra vita, un pesce così grosso.
Continua il combattimento, con Andrea e Roberto, che a turno si sostituiscono a Maurizio. In alcuni frangenti quasi una danza; il pesce esattamente parallelo alla barca, con la lenza che taglia l’acqua a cinque-sei metri dalla barca. Barca e pesce nella stessa direzione, fianco a fianco, come in una “lenta” gara di velocità. Ormai, son passati almeno quaranta minuti dall’aggancio; è decisamente maggiore il filo che abbiamo recuperato.
Il pesce per alcuni momenti si intravede in profondità, nel blu scuro dell’acqua; saranno 20-25 metri, è molto vicino alla barca. Intensifichiamo il combattimento con “pompate” e immediati recuperi della lenza. Il pesce è sempre più vicino. La battaglia è durissima ma barca ed equipaggio lavorano con ottima coordinazione; l’adrenalina sale altissima e non fa sentire la stanchezza alle braccia. Cerchiamo anche di respirare profondamente e regolarmente, non abbiamo idea di quanto possa durare la battaglia; il tattico avverte che non dobbiamo rimanere a corto di fiato. Il pesce è nuovamente ad una ventina di metri di profondità, a lato della barca.
Improvvisamente, parte nuovamente e decisamente la lenza, il mulinello canta con decisione, quasi con prepotenza; il pesce cambia tattica, si dirige repentinamente verso il largo, in direzione “ore due” rispetto la barca. E’ in questo momento che capiamo che non è nemmeno un tonno, è questo l’istante che rimarrà indelebile nelle nostre menti. Il pesce si esibisce in un paio di salti fuori dall’acqua, avvolgendosi e ricadendo sul dorso nel tentativo di incrociare la nostra lenza con la spada. E’ un Marlin! Sì, è il sogno di ogni pescatore di mare: è il re del mare! E’ (per noi) enorme, bellissimo, fantastico. Non è un sogno. È realtà! E’ una realtà ancora agganciata alla nostra canna! Dalla nostra barca si leva un boato (a posteriori comprensibile, ma certamente sotto il profilo scaramantico "non propiziatorio").
Nonostante l’euforia non smettiamo nemmeno per un attimo di combattere. Dopo una decina di minuti, il pesce sembra meno deciso, le sue sfuriate più corte e meno frequenti. Passiamo con decisione, ma senza sconsiderata frenesia, all’attacco finale. Pompiamo alzando con forza la canna e recuperando velocemente mentre la abbassiamo. Lo vediamo nuovamente, in profondità, sotto la barca. Più volte cerca di incrociare la barca per far impigliare la nostra lenza al motore; in modo coordinato, motore in folle, la postazione di combattimento si sposta da un lato all’altro della barca con la lenza che passa sopra la calandra del motore. La battaglia è ancora dura e la stanchezza nei muscoli delle braccia si fa sentire. Ma il Marlin è sempre più vicino, continuiamo a recuperare lenza. Il Marlin è a pochi metri dalla barca quando parte in un ennesimo attacco. Punta la poppa, passa a non più di due metri dal fianco della barca nell’angolo di poppa, cerca le eliche (che non trova) ma riesce, purtroppo, a liberarsi.
La canna improvvisamente “morbida” e il “mutismo” del mulinello ci indicano inequivocabilmente che il Marlin è riuscito a liberarsi. A soli due metri dalla barca ! A soli due metri dall’incredibile! A soli due metri dall’impensabile (non è periodo di passaggio di Marlin). Ha vinto il Marlin! Bravo Marlin!
In un contesto di imprecazioni che si leva in coro dall’equipaggio, recuperiamo quei pochi metri di lenza che ci separavano dalla vittoria, per capire cosa è successo, per capire cosa ha reso impossibile e per pochi metri, il realizzarsi di un sogno. Si è rotto l’anello di acciaio del moschettone collegato alla girella che tiene il terminale. Mai avrei ipotizzato nel moschettone il responsabile della mancata cattura. Certo, è facile ora sentenziare che quel moschettone non aveva un carico di rottura adeguato; è semplice affermare che avremmo dovuto lavorare di più con la frizione (che sino quel momento aveva lavorato benissimo). Il risultato non cambia; quella preda, il sogno di ogni pescatore, ha vinto la battaglia. Dopo quasi un ora di combattimento che ha stroncato i nostri muscoli, siamo riusciti a portare il Marlin a soli due metri dalla barca. Due soli metri. Due soli metri, che diventano chilometri di differenza dalla soddisfazione della cattura. Ha vinto il Marlin!
Ritornati in porto, a conferma che anche nella pesca la fortuna ha un ruolo importante, Bruno ha giudicato “eccezionale” l’aggancio del Marlin; non è periodo e lo stesso rapalà non è l’esca più indicata (il Marlin ha preferito quello con le sfumature verdi e gialle). La legge “non scritta” del mare, impone di liberare gli esemplari inferiori ai 300 kg; avremmo quindi comunque liberato il nostro Marlin. Ma tra la nostra volontà e quella del pesce, la lunghissima, inarrivabile, chilometrica, distanza di due metri. Rimane un ricordo ugualmente bello e... una convinzione: non smetteremo di sognare... arrivederci Tarrafal!
Dario Morlini