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La traina col vivo

In natura, tutti i predatori si procacciano il cibo cacciando altri animali. Sebbene alcuni di loro si accontentino anche di animali morti, in genere sono quelli vivi a costituire la voce principale della loro dieta. Anche in mare questa situazione si ripete costantemente tanto che molti pesci ricoprono il duplice ruolo di predoni dei pesci più piccoli e di prede dei pesci più grossi.

La presentazione di un pesce vivo come esca, quindi, è quanto di più naturale sia possibile fare nell’azione di pesca a traina. Ed è proprio di questa tecnica di pesca che parleremo nel seguito, distinguendo due situazioni abbastanza differenti, che richiedono approcci diversi, la traina sotto costa a serra e lecce e la traina di fondo a dentici e ricciole.

Le possibilità di trainare con esche vive non si esauriscono a queste due situazioni ma riteniamo che, avendo acquisito una buona pratica con queste due tipologie di pesca, si sia in grado di affrontare anche altre situazioni, ad esempio la traina col vivo in altura, alla ricerca di tonni, pesci spada, lampughe e palamite o una bella aguglia imperiale.

esche vive 
  
La traina costiera 

La materia è molto vasta, quindi iniziamo subito con il delimitarne il perimetro. Noi qui ci riferiremo ad ambienti specifici, la foce del Tevere e la limitrofa zona portuale di Ostia, e parleremo di due pesci in particolare, la leccia ed il serra. Non parleremo, quindi, di altri predatori abituali frequentatori dell’immediato sottocosta, quali la spigola ed il barracuda.

In questo articolo, non parleremo neanche delle tecniche da adottare per procurarci l’esca, vale a dire come si pescano quei pesci che poi metteremo all’amo.

Espletato il compito di delimitare i confini di nostro interesse, iniziamo ad entrare nello specifico, distinguendo le attrezzature che è bene utilizzare con i serra e con la leccia amia, tenendo sempre conto, però, che entrambe le specie in certi periodi sono solite frequentare i medesimi fondali.

Traina col vivo ai pesci serra

Sconosciuto lungo gran parte delle nostre coste fino a pochi anni fa, il serra ha col tempo colonizzato aree sempre più ampie. Così non è velleitario affermare di impostare una battuta di traina proprio sulla ricerca di questo pesce.

Nel Lazio è ormai una presenza costante, nel periodo giusto.

Meglio conoscerne le abitudini, dunque, ed affrontarlo con la giusta tecnica e vi assicuriamo che le soddisfazioni non tarderanno a venire.

traina serra

L’attrezzatura

Il pesce serra ha una reazione esplosiva dopo essere stato ferrato. Non compie lunghe e potenti fughe ma piuttosto corre in superficie, cambiando spesso direzione, anche venendoci incontro, esibendosi in spettacolari salti fuori dall’acqua. Per questo, tenuto anche conto che la taglia media è di 2-3 chili e che piuttosto rari sono gli esemplari che superano i 7-8 chili, è preferibile utilizzare canne piuttosto morbide, in grado di assecondarne la reazione. Le canne più indicate sono perciò quelle da traina da 6 a 12 libbre.

Il mulinello deve essere proporzionato alla canna e caricato con del monofilo in nylon dello 0,35 o dello 0,40.

Il finale deve essere costruito con un tratto finale di una ventina di centimetri almeno di treccia d’acciaio da 30 o 40 libbre, da bloccare con gli appositi manicotti oppure di tipo termosaldante. Senza l’uso del cavetto le speranze di portare in barca un serra sono praticamente nulle. Con la sua formidabile dentatura un serra è capace di tranciare di netto qualsiasi altro materiale.

Gli ami saranno robusti e molto appuntiti, in grado di penetrare in un palato molto duro, della numerazione dal 3/0 al 5/0, in base alla dimensione media dei pesci insidiati e delle esche utilizzate.

Nel periodo in cui però sono presenti le lecce, pescare col vivo può portare alla cattura anche di questo maestoso pelagico, a patto però di utilizzare un’attrezzatura adeguata. Trovarsi un pesce di 20 chili o più da combattere con l’attrezzatura da serra ci porterebbe ad un lungo e stressante tira e molla dall’esito non scontato ma comunque con molte probabilità di perdita del pesce. Pertanto, in questi periodi consiglio di utilizzare l’attrezzatura in precedenza descritta solo trainando con il morto, poco gradito alla leccia, mentre, per per l’uso dell’esca viva, vi rimando a quanto scritto nell’articolo quando si tratta della traina a questo pesce.

L’esca

Il serra è un pesce di “bocca buona”. Pertanto un pò tutti i pesci del sottocosta possono tarsformarsi in ottime esche.

I più utilizzati, anche perché più facili da reperire, sono i cefali, le aguglie, i sugarelli, le stelle, con queste ultime che a mio parere sono un po’ meno efficaci. Ottimi anche i fragolini, le mormore, i maccarelli.

L’innensco avviene con due ami, uno scorrevole con funzione di trainante, l’altro fisso con funzione di ferrante.

I serra attaccano l’esca al centro o in coda, quindi è in questa zona che appunteremo sotto pelle l’amo all’esca. Nel caso di aguglie di notevole dimensione, conviene ricorrere ad un terzo amo da montare fisso 5-10 centimetri davanti al ferrante.

Sebbene i serra possano attaccare anche pesci di notevoli dimensioni, per facilitarne la cattura vi consiglio di utilizzare esche dai 100 ai 300 grammi di peso.

Con i serra l’esca viva può essere egregiamente sostituita anche dal morto. Si utilizzano pesci allungati, che trainati “nuotano” meglio, mantenendo un’assetto verticale senza ruotare su se stessi. Quindi utilizzeremo aguglie, anguille e piccoli gronghi. Per migliorarne l’assetto in fase di traina conviene fissare un piombo ad oliva di 20 o 30 grammi sotto la testa del pesce trainato. L’innesco della esca naturale avviene come col vivo, aggiungendo magari un terzo amo centrale (vedi scheda).

Per ingannare i serra più smaliziati, poi, è possibile innescare il morto facendo passare il cavetto all’interno del corpo del pesce, mediante l’uso di un ago da innesco.

Zone e stagione di pesca

Il serra è un pesce pelagico che accosta stagionalmente. Da primavera fino alla fine dell’autunno è possibile incontrarlo lungo le scogliere come di fronte alle spiagge. Vi sono però alcuni ambienti che per le loro caratteristiche peculiari attraggono di più questi pesci e sono le foci dei fiumi e le zone portuali. In queste zone l’incontro con questi pesci è abbastanza frequente. Si tenga presente che i serra possono risalire i fiumi per centinaia di metri e spesso si portano a caccia anche all’interno dei porti.

Nella nostra zona la pesca dei serra viene effettuata in tutta la zona della foce del Tevere, dagli antemurali del nuovo porto di Ostia, a Sud, fino alle barriere artificiali di protezione della spiaggia di Fregene, a Nord.

La prima massiccia ondata di serra arriva in genere a Maggio; gli ultimi serra si pescano di solito a Novembre. Tali periodi sono indicativi perché influenzati dagli eventi metereologici e climatici. Anche in pieno inverno, comunque, è possibile qualche sporadico incontro con questi pesci.

leccia e serra

L’azione di pesca

L’ambiente nel quale ci dedicheremo alla pesca del pesce serra, vale a dire la zona limitrofa alla foce del Tevere, è caratterizzata da fondali sabbiosi e poco profondi. Qui il serra caccia prevalentemente in superficie e comunque negli strati più superficiali del mare. Pertanto, trainando, non è necessario piombare le lenze.

Se il nostro assetto prevede l’utilizzo di una seconda canna in pesca, può essere conveniente affondare un poco la seconda lenza con l’impiego di un piccolo piombo guardiano di 70-150 grammi. Si tratta di un piombo a pera fissato ad un bracciolo di un metro o poco più di lenza sottile (max 0,30) legato alla lenza una quindicina di metri sopra il terminale.

La traina col vivo si effettua a bassa velocità, più o meno un nodo e mezzo.

La frizione sarà tarata al limite dello slittamento. Quando avvertiremo i colpi causati dai morsi del serra, aspetteremo che questo termini di ingoiare l’esca e parta deciso. Altrettanto decisa sarà la nostra ferrata.

Trainando con esca morta, invece, l’azione di pesca sarà diversa. Traineremo a velocità più sostenuta, circa due nodi e mezzo, e tareremo la frizione in modo che il pesce si autoferri sull’attacco, un po’ come si fa abitualmente trainando con le esche artificiali.

Nonostante i nostri accorgimenti, non tutti gli attacchi di serra porteranno alla ferratura del pesce. Il serra infatti attacca velocissimo e dopo aver mutilato il pesce, non sempre torna sulla sua preda. In caso di attacco a vuoto i segni saranno evidentissimi ed assolutamente caratteristici: i tagli saranno profondi, come se fossero stati inferti da una lama affilatissima.

La presenza dei serra in una determinata zona di mare è spesso molto evidente. I loro attacchi sui branchi di cefali o di aguglie non passano certo inosservati, né ai pescatori più attenti, né ai gabbiani che sono sempre all’erta. Così è anche possibile fare una ricerca a vista.

In mancanza di segnali sarà necessario cercarli nelle zone che sono soliti frequentare. Essendo un pesce gregario, è possibile effettuare catture multiple, tornando a trainare nel medesimo punto ove si è registrato un primo attacco.

Questa pesca può essere praticata sia di giorno che di notte. L’orario migliore è forse quello del tardo pomeriggio, fino al tramonto del sole e anche un poco oltre. Anche l’alba è spesso un buon momento.

Il serra è un combattente molto originale. Non basa la sua difesa sulla potenza, ma piuttosto sui salti, sui cambi di direzione, sulle fughe veloci e improvvise. Non di rado viene incontro al pescatore. L’insieme di queste azioni spesso porta alla slamatura e conseguente perdita del pesce. Un recupero delicato, senza mai forzare troppo l’azione, può limitare i salti del pesce ma fino alla fine ci sarà la possibilità che questo si slami con un’ultima piroetta a un metro dalla barca.

Per concludere la cattura è necessario utilizzare un piccolo raffio od un ampio guadino; più pratico quest’ultimo ma bisognerà mettere in conto la necessità di rattoppare i numerosi buchi provocati dai morsi del pesce.

Si raccomanda di fare molta attenzione nello slamare il pesce catturato. Non introducete mai le dita all’interno della bocca di un serra, nemmeno da morto; utilizzate piuttosto delle pinze.

Traina col vivo alla leccia amia

Le lecce amia sono pesci pelagici che in alcuni periodi dell’anno si avvicinano nell’immediato sottocosta. Qui, di anno in anno, frequentano sempre le stesse zone. Nel Lazio vi sono parecchi posti dove possiamo incontrarle. Tra i molti, la foce del Tevere costituisce un autentico hot-spot per la cattura di questi splendidi predatori.

Meglio conoscerne le abitudini, dunque, per affrontarle preparati al meglio e con la giusta attrezzatura, perché solo una pesca mirata e dedicata a questo pesce ci potrà garantire continuità di successi e non solo catture sporadiche.

traina leccia

L’attrezzatura

Nella scelta dell’attrezzatura che dovremo impiegare, si deve tener presente che trovarsi a che fare con pesci ben oltre i 20 chili non è poi così improbabile. Pertanto, sconsigliamo di scendere eccessivamente di libbraggio, a meno che non si decida di tentare qualche nuovo record europeo o mondiale.

Il nostro consiglio è di abbinare mulinelli 4/0, possibilmente con frizione a leva, a canne da traina da 20 libbre.

In bobina caricheremo un buon nylon dello 0,50 (30lb).

Per il terminale opteremo per il fluorocarbon dello 0,60 che preferiamo al nylon non tanto per la minor visibilità, in foce l’acqua non è mai particolarmente limpida, quanto piuttosto per la maggior resistenza alle abrasioni, caratteristica utile quando abbiamo a che fare con pesci muniti di microscopici dentini come appunto la leccia amia.

Come ulteriore misura precauzionale contro le placche ruvide poste all’interno della bocca del pesce, consigliamo di doppiare l’ultimo tratto del terminale. Bastano anche venti centimetri, giusto quelli che ci auguriamo possano presto finire in bocca ad una bella leccia.

Il terminale sarà lungo almeno una decina di metri. Conviene costruirlo di quindici metri per poi eliminarne un pezzo ad ogni cattura.

Per gli ami, vi consigliamo di impiegarne di dimensioni piuttosto generose, nelle misure dal 5/0 all’8/0 a seconda dell’esca impiegata, anche per quello trainante, per motivi che vedremo successivamente. Ami robusti per resistere alla trazione, appuntiti per garantire una buona penetrazione anche nel palato che è piuttosto duro e leggeri per non compromettere il nuoto dell’esca.

La montatura che consigliamo tiene conto del modo particolare in cui la leccia attacca le grosse esche con le quali noi vi consigliamo di pescare. L’attacco, in questi casi, si conclude con la leccia che ingoia l’esca dalla testa. Per questo la quasi totalità dei pesci li ferreremo con l’amo trainante che proprio per questo motivo vi consigliamo di legare fisso e non scorrevole.

Lo sceglieremo di dimensioni tali da stagliarsi bene dal profilo della testa dell’esca, in modo che la sua punta sia libera di penetrare nella carne all’interno della bocca della leccia.

Ottimo si è dimostrato l’uso di una particolare montatura, detta “catalina”, che prevede l’impiombatura di due ami affiancati e contrapposti a 180°. In questo modo, uno ha funzione di trainante e servirà a trascinare l’esca, l’altro, con funzione di ferrante, è rivolto con la punta verso il basso ed è totalmente libero così che più facilmente farà presa, garantendo una ferrata sicura. Il terminale va legato direttamente ad entrambi gli anelli degli ami.

Per le lecce la montatura potrebbe finire qui. Se però non vogliamo rinunciare alla cattura di qualche bel serra che frequenta le medesime zone antistanti la foce, allora dovremo montare anche un robusto cavetto d’acciaio armato con un amo da posizionare in zona caudale alla nostra esca.

L’esca

L’ampio apparato boccale consente alla leccia di ingerire anche prede di notevoli dimensioni. Per questo, noi vi consigliamo di privilegiare esche assai consistenti, che nel tempo hanno dimostrato di esercitare un maggiore potere attirante nei confronti dei grossi predatori. Con le lecce, la taglia ideale dell’esca va da un minimo di 4-500 grammi fino ad oltrepassare il chilo di peso. Esche così grosse, non solo attirano di più le lecce di maggiori dimensioni ma riescono anche ad operare un minimo di selezione, evitando i frequenti attacchi dei serra più piccoli che con i morsi potrebbero mutilare i pesci da noi innescati, portandoli rapidamente alla morte, rendendoli così inservibili per i nostri scopi.

L’esca principe per le lecce alle foci dei fiumi e nelle zone portuali è il cefalo. La nostra zona non fa certo eccezione, da questo punto di vista.

Ottimamente si sono comportati anche il sugarello, il maccarello e l’aguglia, purché di generose dimensioni. Un poco inferiore ma pur sempre efficace, si è rivelata la stella. All’interno della foce, dove l’acqua è dolce, è possibile utilizzare anche il cavedano come esca alternativa.

Contrariamente a quanto capita con i serra, con le lecce non si può ricorrere, in caso di necessità, all’uso dell’esca naturale morta. I gronghetti, ad esempio, si sono dimostrati del tutto inefficaci.

Zone e stagione di pesca

La leccia, dicevamo all’inizio, è un pesce dalle abitudini pelagiche che accosta stagionalmente. Solitamente, alla foce del Tevere, qualcuna arriva già a primavera e si trattiene in zona per tutta l’estate. Proprio alla fine di questa stagione, con l’acqua del mare più calda, le file si ingrossano per l’arrivo di branchi costituiti da numerosi individui di tutte le taglie. E’ con questa ondata che arrivano, di solito, anche le lecce più grosse.

Al contrario, è l’abbassarsi della temperatura dell’acqua ad allontanare le lecce dalla zona costiera. Di solito avviene intorno alla fine di Novembre ma, naturalmente, dipende molto dalle condizioni climatiche.

La zona in cui cercarle è tutta quella della foce, dal porto nuovo di Ostia alle barriere di protezione della spiaggia a Focene.

Spesso capita che le lecce, che ben sopportano l’acqua dolce, risalgano la corrente del fiume anche per alcune centinaia di metri.

Altre volte, si spostano al seguito dei branchi di alici, aguglie o altri pescetti ed allora è possibile incontrarle anche ad una discreta distanza da riva, su fondali di alcune decine di metri.

La presenza delle lecce in una determinata zona è talvolta evidenziata dalle numerose cacciate a pelo d’acqua. In questi casi potremo vedere le loro pinne dorsali solcare il mare ed i pesci cacciati, cefali ed aguglie, per lo più, saltare fuori dall’acqua in cerca di una improbabile salvezza.

Le ore migliori per la pesca a traina delle lecce sono quelle centrali della giornata, con il sole alto sull’orizzonte. Una pescata alle lecce viene solitamente impostata con uscita alla mattina per procurarci l’esca necessaria e successiva traina, dalla tarda mattinata a metà pomeriggio. Raramente c’è capitato di prendere lecce di sera, mai di notte. Meglio allora dedicarsi ai serra che proprio col calar delle tenebre solitamente intensificano l’attività predatoria.

attacco serra

L’azione di pesca

Pescando col vivo le lecce nella zona della foce del Tevere, caratterizzata da fondali sabbiosi e poco profondi, si traina generalmente con un’esca in superficie ed una appena affondata. Oltre a favorire la navigazione, riducendo le possibilità che le due lenze si intreccino in fase di virata, questa configurazione ci consente di sondare sia gli strati d’acqua più superficiali che quelli un po’ più prossimi al fondo. Per affondare la lenza di qualche metro, qui i fondali sono comunque bassi, è sufficiente l’uso di un piccolo piombo guardiano di 70-150 grammi o anche un piombo a sgancio rapido del medesimo peso.

Per aumentare il divertimento e godersi a pieno le emozioni dell’attacco di una leccia, consiglio però di trainare sempre in superficie. In questo modo avremo modo di vedere coi nostri occhi tutta la fase che precede il combattimento.

L’attacco di una leccia spesso è preannunciato dal comportamento del cefalo (o altro pesce esca utilizzato) che viene in superficie nel suo tentativo di fuga. Il predone lo segue per un po’, quindi inizia a colpirlo col muso, lo lancia per aria, lo afferra in punta di labbra e poi lo rimolla, lo morde a metà corpo, attaccandolo da un lato, quindi se lo rigira in bocca ingoiandolo di testa (è questo il momento giusto per la ferrata!), il tutto in mezzo agli schizzi e sotto i nostri occhi. L’attacco può durare pochi secondi ma anche alcune decine che vi parrà non passino mai. Per ferrare il pesce dovremo dar fondo a tutta la nostra pazienza, solo quando la leccia avrà ingoiato per bene l’esca avremo buone probabilità di non ferrare a vuoto. Alcune volte, comunque, la fuga del pesce ci indurrà a ferrare prematuramente e la nostra azione non andrà a buon fine. Scegliere bene i tempi non è cosa facilissima e richiede una certa pratica. Come regola generale, alle prime tocche non si deve mai ferrare ed anzi è opportuno arrestare la marcia o lasciare alcuni metri di lenza in bando per favorire l’azione della leccia.

Se la leccia non si decide a sferrare l’attacco decisivo, potremo cercare di provocarlo facendo “fuggire” il cefalo con un recupero veloce, a strattoni. Certe volte la leccia si limiterà a seguire l’esca, altre deciderà di attaccare, magari a due metri dalla poppa della barca! Mantenere la calma in questa situazione, con l’adrenalina alle stelle, assaliti dall’emozione, non è sempre facile. Se l’attacco dovesse fallire, comunque, non tutto è perduto. La leccia spesso torna per attaccare di nuovo, una, due volte e prima o poi ….

Come spesso accade, gli attacchi più decisi li avremo su esche piccole, meno attiranti ma che possono essere ingoiate in un solo boccone. In questo caso l’attacco è meno spettacolare ma non ci sono difficoltà in fase di ferrata.

Un’altra situazione che porta ad attacchi decisi è quando ci imbattiamo in un branco di lecce a caccia. Qui scatta la molla della competizione alimentare e le lecce si lanciano sull’esca senza titubanze.

Ad ogni modo, quando la leccia partirà decisa, dovremo ferrare con decisione, senza esitazioni, in modo da piantare bene l’amo nel pesce.

Il combattimento, per quanto la leccia non abbia la combattività e l’intelligenza di una ricciola, è pur sempre reso impegnativo dalla mole del pesce che essendo un pelagico è pur sempre un ottimo nuotatore. La prima fuga può essere assai violenta ed il pesce ci potrebbe sbobinare diverse decine di metri di lenza. In questa fase non dovremo contrastare eccessivamente la fuga del pesce. Serrare troppo la frizione del mulinello porterebbe inevitabilmente alla rottura della lenza. La leccia combatte comunemente in superficie, con repentini cambi di direzione ma senza gli spettacolari salti caratteristici dei serra.

Passata la sfuriata iniziale, di solito il pesce si farà trascinare, senza opporre troppa resistenza, fino alla barca, alla vista della quale darà fondo alla propria riserva di energie per qualche altra fuga laterale e qualche puntata sul fondo.

In genere, in ogni caso, saranno sufficienti pochi minuti per portarla a bordo, concludendo la nostra azione con un preciso colpo di raffio.

L’unica attenzione da fare, è quella di non cedere troppa lenza al pesce nel caso di traffico intenso d’imbarcazioni. Alla foce del Tevere, nei giorni festivi con la bella stagione, molte sono le barche che entrano ed escono ed una di queste potrebbe tranciare involontariamente la lenza. Riuscire a condurre il combattimento a corto limita notevolmente questo rischio.

L’esito del combattimento, in ogni caso, non è mai scontato e può capitare che il pesce si slami a causa magari di una ferrata in un punto di scarsa tenuta per l’amo. Mettiamolo in conto, qualche pesce prima o poi lo perderemo ma è giusto così, non è sempre il pescatore a vincere la sfida col pesce.

La traina di fondo

 Anche in questo caso, la materia è troppo vasta per essere affrontata in un unico articolo. Pertanto, parleremo solo di un metodo di affondamento, quello che prevede l’uso del piombo guardiano (un piombo, solitamente a pera, di dimensioni tra i 250 gr. e 1 kg., collegato alla lenza madre tramite uno spezzone di filo più fino), rimandando ad un’altra occasione l’esposizione di altre tecniche di affondamento dell'esca viva che qui ci limitiamo a citare: l’affondatore manuale o elettrico, il monel (lenza metallica), il dacron piombato (dacron con all'interno un anima di piombo), l’uso dei piombi a sgancio rapido lungo la lenza madre.

La tecnica della traina con esche naturali vive ed il piombo guardiano è finalizzata alla cattuta di due tra le più ambite prede del Mediterraneo, il dentice e la ricciola. Ovviamente, anche altri pesci possono essere occasionalmente catturati, come i dentici prai, le cernie, i barracuda, le lampughe, le palamite e molti altri, però è solo di dentici e ricciole che parleremo nel seguito, con una attenzione particolare alle Secche naturali di Tor Paterno, unica area della zona di nostro interesse che presenta l’habitat giusto per la pesca di questi pesci predatori.

Traina col vivo ai dentici

Il dentice è sicuramente da annoverare tra le prede più prestigiose della traina costiera in Mediterraneo.

Vive a stretto contatto con il fondo, in zone per lo più rocciose.

Nel Lazio, è presente soprattutto alle Isole Pontine, sulle secche del Circeo, ad Anzio, nella zona di S. Marinella e Civitavecchia.

Nella nostra area di pesca, è alle Secche di Tor Paterno che andremo a cercarlo. Lì un tempo era presente in folti branchi, oggi, purtroppo, lo è molto di meno. Ciò nonostante, riteniamo utile dedicare qualche giornata di pesca alla ricerca di questo predatore, sia per le soddisfazioni che riceveremmo da una eventuale cattura, sia per affinare la tecnica di traina, sia per testare le attrezzature che utilizzeremo in vacanza, in luoghi più ricchi di dentici quali la Sardegna o la Corsica.

Allora, vediamo più nel dettaglio come pescare questi pesci con la tecnica della traina con le esche naturali.

traina dentice

L’attrezzatura

Innanzitutto, parliamo di tecniche d’affondamento. Si, perché è proprio a fondo che dovremo far transitare la nostra esca, il più vicino possibile al fondo, là dove i dentici nuotano e cacciano abitualmente. Intendiamoci, alle volte capita di ferrare dentici anche a mezz’acqua ma la cosa è piuttosto casuale. In genere gli attacchi avvengono sull’esca posta al massimo a 5-6 metri dal fondo.

Sebbene sia possibile affondare le nostre esche con diversi piombi posti lungo la lenza (piombi a sgancio e piombi a tortiglione) o anche utilizzando lenze di tipo affondante (monel e dacron piombato), trascureremo queste tecniche in quanto più adatte alla traina con gli artificiali. Per trainare con esche naturali, vive o morte, due sono i metodi suggeriti: l’affondatore ed il piombo guardiano.

Sul metodo da utilizzare lasciamo a voi la scelta, magari dopo aver letto il nostro articolo, specifico su questo tema, nella sezione degli approfondimenti tecnici. Sono metodi altrettanto validi anche se con caratteristiche diverse, da scegliere in base alle caratteristiche della imbarcazione e dalle preferenze personali.

Il dentice, pur essendo un pesce che può raggiungere dimensioni ragguardevoli, non ha una reazione particolarmente violenta dopo essere stato ferrato. Dopo una breve prima fuga, normalmente si fa trascinare fino in superficie, fino alla barca, quasi senza opporre altra resistenza. Al più, si mette di taglio, sfruttando la resistenza dell’acqua sul corpo per opporre un minimo di resistenza, oppure sentiremo la trazione sulla canna a intermittenza, quando il pesce agita la testa nel tentativo di liberarsi dall’amo. Per questo, tenuto anche conto che la taglia media è di 3-5 chili e che piuttosto rari sono gli esemplari che superano gli 8-10 chili, è possibile utilizzare canne abbastanza morbide, da 8 a 12 libbre.

Tuttavia, considerando l’abitudine delle ricciole di frequentare i medesimi posti, sconsigliamo l’uso di attrezzature tanto leggere, a meno di non essere alla ricerca di qualche record. Personalmente, utilizziamo canne con passanti ad anelli da 20 libbre, con mulinelli rotanti proporzionati, caricati con lenze da 40 libbre in monofilo di nylon o da 50 libbre in multifibra.

Il terminale, lungo circa venti metri, è montato con l’interposizione di una piccola ma robusta girella (deve passare agevolmente dagli anelli della canna) ed è sempre in nylon o meglio ancora in fluorocarbon dello 0,60 ed è doppiato nel tratto su cui sono montati gli ami e che presumibilmente potrebbe entrare in contatto con la bocca del pesce ed i suoi denti.

Gli ami sono due o tre a seconda dell’esca impiegata, nella numerazione dal 3/0 al 7/0, ad anello, leggeri e molto affilati ma dalla sezione non troppo fine, perché la robustezza è una caratteristica alla quale proprio non possiamo rinunciare.

Vogliamo sottolineare che questa attrezzatura è certamente sovradimensionata per i dentici ma è pensata per poter affrontare la piacevole sorpresa di una bella ricciola di taglia.

L’esca

Vediamo quali esche vive sono maggiormente indicate per la pesca al dentice.

L’esca principe è il calamaro, reperibile solo in inverno a costo di grossi sacrifici (si pesca esclusivamente di notte). E’ una esca viva che raramente passa inosservata ed è in grado di scatenare l’attacco da parte del dentice più smaliziato, per questo molti pescatori sfidano i rigori invernali e si recano di notte alla ricerca di questo cefalopode da innescare alle prime luci dell’alba. E’ di difficile conservazione e richiede vasche molto grandi nelle quali conservare, vivi, pochi esemplari.

Si innesca con due ami, uno trainante dal basso verso l’alto all’apice del mantello, l’altro pescante nascosto tra i tentacoli e appuntato in modo inverso, dall’alto verso il basso. Discreta la vitalità in acqua.

Anche da morto, se è fresco e ben conservato, il calamaro mantiene quasi immutate le qualità catturanti. In questo caso, perché il nuoto appaia naturale e non tenda a ruotare, è utile fissare con del filo di rame un piccolo piombo ad oliva sotto l’apice del mantello.

Dall’autunno alla primavera, anche la seppia è un’esca valida. E’ di più facile reperibilità, intanto perché è possibile pescarla di giorno, poi perché è facilmente acquisibile direttamente dai pescatori professionisti. Si conserva facilmente, anche per più giorni se posta in una nassa sott’acqua. La vitalità da innescata è tale che può durare anche per l’intera pescata.

Si innesca come il calamaro e come quest’ultimo, mantiene una certa efficacia anche da morta, purchè abbia mantenuto integro il mantello e la livrea abbia conservato una buona colorazione.

Infine i pesci. Su tutti l’aguglia, il sugarello e l’occhiata. Sono esche tipicamente estive ed autunnali, comuni prede delle scorribande dei dentici nel sottocosta. Sono esche di facile reperibilità (traina, bolentino coi sabiki) e non richiedono particolari accorgimenti nella conservazione, basta una buona vasca con ricircolo dell’acqua. Perdono abbastanza presto la vitalità iniziale, anche se restano vivi per alcune decine di minuti.

Buone anche le salpe, le boghe, le triglie, i pagelli e un po’ tutti i pescetti che frequentano le zone rocciose e dunque sono prede abituali dei dentici. L’innesco dei pesci avviene con un amo trainante che cuce la bocca da sotto in su ed un ferrante posto sotto la pancia, all’ingiù, tra il foro anale e la coda.

Solo l’aguglia, se particolarmente lunga, richiede l’uso di un terzo amo posto a metà corpo. Sempre l’aguglia, è l’unico pesce che per la forma allungata può essere utilizzata con successo anche da morta, anche se, in questo caso, perde molta della sua efficacia.

Zone e stagione di pesca

Tutta la zona rocciosa delle Secche di Tor Paterno costituisce una zona di caccia dei dentici della zona. Lì, specialmente nei periodi in cui la temperatura dell’acqua è più alta, di tanto in tanto è possibile trovarli assommati. Ciò avviene con maggior frequenza quando il sole è basso, all’alba ed al tramonto.

In inverno, invece, è più facile trovare i dentici nelle zone d’acqua più profonde, ai margini della secca, dove il fango si alterna a basse conformazioni di roccia. Si tratta di zone piccole ed isolate, difficili da individuare, che possono però, di contro, regalarci grandi soddisfazioni con catture a ripetizione.

ricciole e dentice
 

L’azione di pesca

Anche la traina di fondo, a meno di una conoscenza tanto approfondita del posto da consentirci di andare a colpo sicuro, è una pesca di ricerca. In questo caso, però, la ricerca non viene effettuata per mezzo di osservazione diretta, bensì attraverso uno strumento indispensabile, l’ecoscandaglio. Cercheremo i pesci ma anche tutte quelle zone che riterremo interessanti per la conformazione disomogenea del fondale. Tutte le zone trovate andranno marcate sul gps, meglio se cartografico, altro strumento praticamente indispensabile per questo tipo di pesca. La ricerca avviene contemporaneamente alla fase di pesca, sondando zone diverse con batimetriche variabili. In pratica si arriva sul primo posto, scelto magari sulla carta nautica, si calano le lenze e si comincia a trainare a bassissima velocità, un nodo, un nodo e mezzo, seguendo un ideale percorso che ci porti a trainare nelle zone che avremo deciso di esplorare.

Faremo in modo che le esche si trovino sempre molto vicine al fondo, per questo saremo spesso impegnati nell’adeguare l’assetto di pesca alla mutata profondità. In zone con alti salti del fondale è piuttosto impegnativo e dovremo stare sempre con la canna in mano se peschiamo col piombo guardiano o con la manovella dell’affondatore se avremo scelto questo mezzo per portare le esche sul fondo.

Se in barca siamo soli sarà preferibile optare per un’unica canna in pesca. Secondo noi, è meglio pescare bene con una che male con due. Noi abbiamo da sempre preferito il piombo guardiano perché ci consente di mantenere uno stretto contatto tra fondale ed esca. Spesso sarà inevitabile incagliare sul fondo e alcuni pesi verranno irrimediabilmente persi. E’ il segno che stiamo pescando bene.

La canna in mano consente anche di rilevare meglio l’attacco del dentice, specie se sul mulinello avremo caricato il multifibre, materiale del tutto privo di elasticità che dunque trasmette senza assorbimenti ogni movimento dell’esca. Inoltre, avendo il multifibre una sezione ridotta rispetto al nylon, rispetto a questo affonda più facilmente, esercitando un minor attrito in acqua, quindi consente di raggiungere maggiori profondità con l’uso di piombi meno pesanti. Grosso modo, con 250 grammi di piombo si pesca fino a 25-30 metri, con 350 grammi fino a 45-50 metri, con 500 fino e oltre i 60 metri di fondo. Naturalmente, molto dipende dall’intensità della corrente e dalla velocità con cui si muove la barca.

L’attacco del dentice, fatta una certa pratica, è facilmente distinguibile dal piombo arroccato tra le rocce. Sentiremo una serie di colpi seguiti talvolta da una trazione continua. La ferrata sarà pronta e decisa. Se dovesse andare a vuoto, lasceremo aperta la frizione in modo da dare al dentice, quindi a noi, una seconda possibilità. Spesso il pesce torna sull’esca anche più di una volta. E’ un comportamento tipico del dentice che prima morde la preda per ucciderla e poi ritorna per ingoiarla.

Il combattimento è in genere senza storia, essendo il dentice poco combattivo. Alle volte con la prima fuga riesce ad intanarsi, altre volte si slama. In tuttti gli altri casi e sono i più, il recupero ha successo ed il pesce viene imbarcato senza problemi, mediante l’uso di un capiente guadino o utilizzando un raffio.

La dilatazione della vescica natatoria porta spesso all’estroflessione dello stomaco del pesce ed alla sua fuoriuscita dalla bocca. La vescica, che porterà in superficie il pesce negli ultimi metri di emersione dal fondo, farà poi galleggiare il pesce e si sgonfierà in pochi minuti, col pesce in barca, tornando nella sua sede naturale.

Occhio all’operazione di slamatura, i canini del dentice sono ben appuntiti e la forza del suo morso è notevole. C’è veramente da farsi male. Meglio allora attendere, senza farsi prendere dalla fretta, magari dedicando un po’ di tempo all’osservazione degli splendidi riflessi di questo pesce della cui cattura potremo andare giustamente fieri, perché il dentice è una preda da pescatori veri.

Traina col vivo alle ricciole

In un’ideale classifica delle prede catturabili nella traina costiera, al primo posto per importanza c’è sicuramente la ricciola. Quella adulta, naturalmente, non le piccole limoncelle che in tanti pescano e purtroppo trattengono approfittando di una legge che stupidamente non le protegge con una misura minima adeguata.

La ricciola è in cima ai pensieri dei pescatori per due motivi: perché è il pesce più grande che si possa catturare anche sottocosta; perché è il più combattivo, quello che più di altri mette a dura prova l’attrezzatura e le capacità dell’angler.

Allora, vediamo più nel dettaglio come si pesca la ricciola, in particolare nelle nostre zone, alle Secche di Tor Paterno, tenendo però presente che, trattandosi di un pesce pelagico, il suo incontro è sporadicamente possibile anche in altre zone.

Certo, è soprattutto sulle secche rocciose profonde che la cattura di questo pesce diventa una costante e non un fatto casuale. Sarà quindi alle Isole Pontine o sulle Secche del Quadro (Circeo), di Costacuti (Anzio), a Santa Marinella e Civitavecchia, che andremo a cercarle. Poi, perchè non programmare una bella vacanza di pesca in Sardegna o in Corsica alla ricerca proprio di ricciole?

Allora, vediamo di farci trovare pronti, quando ci troveremo con uno di questi pesci che tira dall’altra parte della lenza.

 ricciola

L’attrezzatura

Per quanto riguarda le tecniche d’affondamento, vale quanto già scritto in precedenza nell’articolo, relativamente alla pesca con l'esca viva ai dentici, pertanto non staremo qui a ripeterci. Teniamo solo presente che, per le ricciole, non è così necessario trainare a stretto contatto col fondo poiché queste stazionano e cacciano in tutti gli strati d’acqua, dalla superficie al fondo.

Vedremo più avanti, parlando dell’azione di pesca, come sarà più opportuno affrontare le varie situazioni.

La ricciola, non solo può raggiungere dimensioni ragguardevoli, ma ha anche una reazione particolarmente violenta dopo essere stata ferrata. La prima fuga, normalmente, è lunga e veloce, quasi incontrastabile. A questa ne susseguono altre, col pesce che nuoterà alla costante ricerca del fondo dove, se troverà delle rocce, molto probabilmente riuscirà a recidere la lenza. Quella della ricciola è una difesa fatta non solo di potenza (tipo tonno, tanto per intenderci) ma anche di astuzia. Più avanti, analizzeremo nel dettaglio come affrontare il combattimento, qui ci preme soltanto sottolineare come sia necessario allontanare il pesce dal fondale roccioso nel più breve tempo possibile, forzando quindi l’azione di recupero, in questa prima fase, con un’attrezzatura robusta, che ci consenta questo tipo d’azione.

Per questo vi consigliamo di utilizzare canne da traina potenti, da 20 o 30 libbre, munite di capaci mulinelli a tamburo rotante imbobinati con lenze da almeno 40 libbre e finali raddoppiati nel tratto finale ed ami particolarmente robusti.

Si tratta della stessa attrezzatura già descritta in questo articolo nel capitolo sulla traina ai dentici (già si pensava alla possibilità di una ricciola) ed al quale vi rimandiamo. L’unica differenza è che, in questo caso, il nylon, con la sua elasticità, è più indicato con le grandi ricciole perché assorbe meglio le fulminee e potenti partenze del pesce mentre il multifibre, molto più rigido, non perdona il minimo errore di taratura della frizione da parte del pescatore.

L’esca

L’esche da utilizzare nella traina alla ricciola sono le stesse che abbiamo già visto per il dentice, quindi, in ordine di importanza, i molluschi cefalopodi (calamaro, seppia) ed i pesci (aguglie, sugarelli, occhiate, salpe).

L’apparato boccale della ricciola è particolarmente sviluppato, in grado di ingerire prede di notevoli dimensioni. Questo ci porterà a scegliere esche più voluminose. In tal senso, una bella occhiata di 4-500 grammi sarà da preferire ad una aguglia delle dimensioni di una matita.

Inoltre, oltre a quelli già visti, prenderemo in considerazione anche altri pesci, quali aluzzi, barracuda, tombarelli, lanzardi e palamite, generalmente più grossi. Non dobbiamo spaventarci ad innescare esche dal peso anche di un chilo o più. Anzi, entro certi limiti, più grande è l’esca e maggiore è il potere attirante che esercita sulle ricciole, soprattutto su quelle più grandi.

Anche in questo caso, i calamari, le seppie ed anche le aguglie possono essere innescati anche da morti, con le montature già viste in precedenza, purché siano intatti, conservino una livrea ancora brillante, ricca dei colori originali e si riesca a farli nuotare in modo naturale. Certo, da vivi sono meglio, però, in caso di necessità, possono risolvere situazioni difficili.

Sull’uso del cefalo come esca da ricciola, invece, i pareri sono controversi. C’è chi lo considera una buona esca. Personalmente abbiamo dei riscontri molto negativi. Di sicuro, quelli pescati in zone portuali non sono affatto appetiti ai nostri amici pinnuti e questo parere è unanimamente condiviso.

Zone e stagione di pesca

Il mare astintante Ostia e Fiumicino non ha le caratteristiche tipiche degli ambienti frequentati dalle ricciole. Tuttavia, le abitudini migratorie di questo pesce ci consentono un incontro più o meno casuale.

Le Secche di Tor Paterno sono uno spot nel quale sicuramente è possibile incontrarle con una certa frequenza. La presenza di una zona piuttosto ampia di roccia isolata in mezzo ad una distesa di fango e sabbia e la conseguente concentrazione di mangianza costituisce un richiamo di sicuro effetto su tutti i predatori, quindi anche sulle ricciole.

Anche in altre zone le potremo incontrare più o meno occasionalmente: alcuni relitti di fronte Torvaianica, le “bettoline” (occhio ai divieti di pesca, non vi avvicinate troppo altrimenti il verbale è molto probabile), le barriere artificiali sommerse poste di fronte a Fregene, alcune “afferrature” proprio davanti alla foce del Tevere.

Saltuariamente, potremo trovare le ricciole come commensali ai banchetti in mezzo al mare, sulle mangianze di sarde ed alici, in compagnia di palamite, di tonni e di altri predatori. In questi casi, è opportuno modificare l’assetto di traina, ponendo le esche in superficie o affondate di pochi metri. Sono situazioni particolarmente favorevoli che in altri mari (Sardegna, Corsica, ad esempio) si presentano con maggior frequenza, da noi sono piuttosto sporadiche. Sarebbe però un peccato non sapere come affrontarle e non sfruttarle a dovere.

La stagione delle ricciole inizia in Estate e si protrae per tutto l’Autunno e parte dell’Inverno. In genere, con la temperatura dell’acqua più bassa, le ricciole, un po’ come tutti gli altri pesci, si portano più a fondo, dove la temperatura è più costante, ed è lì che le dovremo cercare con le nostre esche, su fondali di non meno di 30 metri, fino al limite dei 60-70.

Più in giù è difficile riuscire a portare le nostre esche senza perderne il controllo, pur ricorrendo a pesi maggiori (750-1000 gr.) di quelli utilizzati abitualmente (350-500 gr.). In questi casi è opportuno ridurre ulteriormente la velocità della barca, arrivando al limite di inserire il folle, di tanto in tanto, procedendo con il solo scarroccio, in modo da far scendere rapidamente le nostre esche. Soltanto quando avvertiremo il piombo toccare il fondo si inserirà la marcia e si procederà al minimo.

attacco dentice

L’azione di pesca

Sebbene le ricciole siano per loro natura portate a muoversi in continuazione, tuttavia le zone in cui più facilmente si incontrano sono sempre le stesse, i sommi delle secche, le pareti di roccia, i cigli e le cadute. Possono stazionare anche sul fango e la sabbia ma solo se nelle vicinanze vi sono zone di caccia, in genere rocciose. E’ in queste zone che imposteremo la ricerca dei pesci attraverso l’ecoscandaglio. Questo nostro prezioso alleato alle volte individuerà i predatori, altre volte ne denuncerà la presenza mostrando la mangianza appallata o schiacciata sul fondo.

La pesca avviene di solito contemporaneamente a quella del dentice. Si usano due canne e si calano le esche a profondità diverse. Se possibile, diversificheremo anche le esche, destinandone alla ricciola una di dimensioni maggiori.

L’attacco della ricciola si può evidenziare in due modi diversi. Se questa mangia a mezz’acqua, si porta immediatamente sul fondo e la fuga che consegue alla nostra ferrata è immediatamente potente e prolungata. Se invece mangia a fondo, certe volte resta ferma ed avremo l’impressione di aver arroccato il piombo sul fondo. Solo durante l’azione di recupero avvertiremo le testate del pesce o magari questo partirà nella sua prima fuga, anche i dopo diverse decine di secondi. Questo comportamento, comunque, è tipico delle ricciole più grosse.

Come già accennato, la prima fuga della ricciola di taglia è lunga e potente e quasi inarrestabile. Il pesce tende a portarsi sul fondo e se trova delle rocce avrà molte possibilità di rompere la lenza facendola strusciare sugli scogli. Noi cercheremo di contrastare, per quanto possibile, l’azione del pesce, rallentandone la fuga ma senza forzare troppo, pena la rottura della lenza e la perdita del pesce.

Cercheremo di guidare il pesce in acque più profonde, allontanandosi dalla secca, portandoci lontano dalle rocce per impostare qui il combattimento. Questo impegnerà, noi e le nostre attrezzature, in un confronto esaltante, con un pesce che prima di arrendersi darà fondo a tutte le energie. E’ sorprendente la combattività di questo pesce. La ricciola reagirà non solo ricorrendo alla potenza, che pure è tanta, ma anche cercando di sfruttare al massimo tutti gli eventuali ostacoli sommersi. Per questo l’esito di un combattimento con una grossa ricciola non è mai scontato, fino alla fine.

Ad ogni modo, se faremo le cose per bene, con decisione ma senza fretta, il pesce, una volta staccato dal fondo e terminata l’ennesima fuga, inizierà a nuotare in tondo e si farà trascinare alla barca. Per un pesce grosso, combattuto con un’attrezzatura adeguata ma non sproporzionata, ci vorranno non meno di 20-30 minuti.

Alla fine, quando la nostra ricciola galleggerà inerme su un fianco di lato alla barca, potrà essere issata a bordo agganciandone semplicemente una branchia con il raffio.

Non inserite la mano nella bocca della ricciola per slamarla perché potreste graffiarvi con i denti, piccoli ma appuntiti e numerosissimi. Servitevi piuttosto di un buon paio di pinze.

La cattura di una grande ricciola è il sogno di tutti i pescatori, andate giustamente fieri se sarete tra i fortunati che riusciranno nell’impresa. Perché non è da tutti e solo attraverso la scelta meticolosa dell’attrezzatura, una notevole padronanza della tecnica di pesca, un perfetto equilibrio tra forza e pazienza durante il combattimento, potremo avere la meglio su questo splendido avversario. Un degno avversario, anche per gli angler esperti.